Il datore paga per le molestie razziali di un dipendente

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L’azienda datrice deve risarcire il lavoratore offeso da molestie razziali se non prova di aver impedito la discriminazione

Il datore paga per le molestie razziali di un dipendente nei confronti di un altro dipendente. Ecco il caso.

Alcuni lavoratori di origine africana, assunti presso una pizzeria milanese, hanno citato in giudizio la loro datrice di lavoro per non averli tutelati e difesi da umiliazioni e offese razziali perpetrate da altri colleghi.

I fatti

Gli insulti

I lavoratori ricorrenti hanno denunciato al Tribunale di aver subito insulti razziali (“negro di merda” e “ritornatene in Africa” o simili) e anche condotte umilianti (sempre a sfondo razziale).

“Disinfestazione!” Costretti a farsi spruzzare il deodorante sotto le ascelle

Tra queste, una ripresa video – diffusa “goliardicamente” sui social – conferma che quei lavoratori venivano costretti a togliersi la maglietta per farsi spruzzare deodorante ascellare. Il “regista” amatoriale commenta alla fine della ripresa: “oh oh, disinfestazione!”

Le condotte denunciate costituiscono “molestia”

L’art.2 d.lgs. 215/2003 “Attuazione della direttiva 2000/43/CE per la parità di trattamento tra le persone indipendentemente dalla razza e dall’origine etnica” ci offre la nozione di “discriminazione”. Sono discriminazioni anche “le molestie“: ovvero quei “comportamenti indesiderati posti in essere per motivi di razza, di origine etnica, aventi lo scopo o l’effetto di violare la dignità di una persona e di creare un clima intimidatorio, ostile, degradante, umiliante e offensivo”.

Ciò premesso è evidente che “gli appellativi utilizzati (chiaramente riferiti alla razza e che accostano alla etnia vari generi di offese) costituiscono, senza dubbio, comportamenti sgraditi, offensivi e umilianti”. Appellativi quali “negro di merda”, “ti rimando in Africa” realizzano forme di “offesa verso persone appartenenti ad altre etnie ed esprimono non solo disprezzo verso la razza”, ma anche un sentimento del tutto contrario al dovere di inclusione dello straniero. Questo scrive il Giudice.

Anche la c.d. “disinfestazione collettiva”, oggetto di video ripresa finalizzata alla successiva divulgazione sui social, costituisce condotta umiliante nei confronti dei lavoratori. Impossibile, peraltro, intravvedere in essa alcuno “spirito goliardico” (come dedotto dalla difesa dell’azienda).

Il Giudice non ha dubbi. “Che il deprecabile gesto abbia avuto intenti razzisti è evidente dal fatto che, benché fossero al lavoro anche altri dipendenti, il sig. … ha chiamato a rassegna solo i tre di colore; a loro si è rivolto chiedendo se a casa tenessero il deodorante; a loro ha chiesto perché non se lo mettessero.”

Il difetto di pulizia personale evidenziato, vero o falso che fosse, era inopportuno. E per i modi utilizzati, ha avuto quale unico intento quello di umiliare i lavoratori e non certo di salvaguardare l’ambiente di lavoro.

Chi risponde delle condotte poste in essere dal dipendente?

Alla luce di quanto sopra il Tribunale è certo che le condotte esaminate costituiscono quindi una molestia ex art.2, c. 3, D.Lgs. 215/2003.

Chi ne risponde? Il Giudice osserva che certamente le condotte sono soggettivamente riconducibili al loro autore materiale: la persona che ha offeso e sprizzato il deodorante. Egli pertanto risponde in prima persona degli atti discriminatori a sfondo razziale.

In giudizio è però chiamata a rispondere anche la società datrice di lavoro sia dei ricorrenti, sia del responsabile. A quale titolo ne risponde e può essere chiamata a risarcisce il danno?

Il datore paga per le molestie razziali di un dipendente

La società ha cercato di respingere ogni addebito per l’accaduto, ma il Tribunale la ha ritenuta responsabile per aver omesso tante condotte invece necessarie.

La datrice ha prodotto un regolamento aziendale che imporrebbe un atteggiamento inclusivo e il ripudio di ogni forma di discriminazione. Inoltre, ha dimostrato che il proprio fondatore è autore di numerose iniziative benefiche ed ha rilevato come l’azienda abbia in organico numerosi lavoratori stranieri. Infine, ha dedotto di aver emesso un comunicato stampa con cui condanna l’operato del dipendente responsabile.

Il Tribunale non ha però ritenuto tutte queste misure sufficienti. Il datore di lavoro avrebbe dovuto fare di più.

Art.2087 c.c. e la tutela della salute dei lavoratori

L’art. 2087 c.c. obbliga il datore di lavoro ad adottare le misure necessarie a tutelare l’integrità fisica e la personalità morale dei prestatori di lavoro. Tra questi obblighi vi è anche quello di “assicurare un ambiente lavorativo nel quale la persona non sia vittima di trattamenti degradanti o discriminatori“. La società avrebbe quindi dovuto adottare misure atte a evitare comportamenti del genere di quelli denunciati.

Alla luce di tale presupposto, il Tribunale rileva che, fatto salvo il regolamento, non risultano esserci altre misure concretamente adottate dall’azienda per verificare il rispetto dei predetti precetti.

Inoltre, indifferenti sono ritenute le iniziative benefiche del fondatore o la “presenza in azienda di numerosi lavoratori anche di colore”, scrive il Giudice. La società, infatti, non deve rispondere di un gesto proprio, ma dei suoi dipendenti. Condotte sulle quali avrebbe avuto “un obbligo di vigilanza al fine di assicurare un ambiente lavorativo idoneo per tutti indiscriminatamente”. Obbligo di vigilanza che, alla luce dei fatti accertati, risulta essere stato – quantomeno e a dir poco – del tutto inefficace.

Parimenti irrilevante risulta anche il comunicato stampa postumo perchè lo stesso, motivato per lo più da ragioni commerciali, non assolve la Società da eventuali omissioni di vigilanza preesistenti.

Violazione dell’obbligo di vigilanza

La società non ha dimostrato neanche di aver svolto indagini quando, in occasione dei questionari sottoposti ai dipendenti il 31 gennaio 2019, tre di loro hanno riferito lamentele anonime. Doglianze per un ambiente lavorativo razzista con condotte non consone tenute da parte di alcuni colleghi.

Infine, il fatto stesso che una un lavoratore assuma reiteratamente toni razzisti denota come il rispetto del regolamento invocato dalla società non fosse rispettato; men che meno da chi svolgeva, almeno di fatto, un ruolo di responsabile.

Benché i ricorrenti non si siano mai lamentati con i vertici aziendali circa le condotte tenute dal responsabile (silenzio le cui ragioni appaiono tra l’altro intuibili) pare difficile pensare che l’abitudine di tale molestatore non sia mai stata percepita.

La reiterazione di condotte denigratorie palesi ha oggettivamente contribuito a creare un ambiente di lavoro non inclusivo e respingente verso alcune persone. E di questo la società deve rispondere.

La responsabilità della società trova fondamento giuridico anche nel disposto dell’art. 2049 c. c.. Tale norma introduce la responsabilità indiretta del datore per fatto e colpa di un proprio dipendente nell’esercizio della propria mansione.

Nel caso esaminato i fatti sono del resto accaduti sul luogo di lavoro e durante lo svolgimento dello stesso. La posizione di responsabilità dell’autore lo ha senza dubbio posto in una posizione di supremazia gerarchica rispetto ai lavoratori umiliati. E senza tale supremazia, gli stessi non avrebbero obbedito.

A dispetto delle testimonianze, la Società ha cercato di negare che l’autore della molestia ricoprisse ruoli di responsabilità. La circostanza però è irrilevante perchè, in ogni caso, dimostra che l’azienda non ha saputo vigilare su quanto accadeva nel proprio ristorante. Con tale omissione ha permesso ad un dipendente di aggiudicarsi di fatto un potere gerarchico e molestare altri lavoratori. Pertanto, il datore paga per le molestie razziali di quel dipendente nei confronti di altri colleghi.

A chi spetta la prova dei fatti?

Interessanti sono le note del Giudice in tema di prova dei fatti.

Alcuni testimoni hanno confermato di aver sentito proferire insulti razziali e offese ai danni dei lavoratori afro-discendenti.

I testi chiamati dall’azienda hanno però, al contrario, riferito di non aver mai sentito lanciare alcun insulto contro i lavoratori di origine africana. Ciò tuttavia non costituisce prova positiva che sconfessa quanto denunciato.

Dichiarare “di non aver sentito” gli insulti denunciati non dimostra che le offese denunciate non vi sono state. Simili dichiarazioni si sostanziano in un contributo neutro, inidoneo a dimostrare la sussistenza di un fatto o a negarne l’esistenza. Non aver assistito alle condotte denunciate o non aver sentito le frasi ingiuriose non prova l’insussistenza delle allegazioni dei ricorrenti. Vale solo ad escludere che tali frasi o gesti siano avvenuti sotto la percezione di quei testimoni.

Nulla esclude che in un momento diverso, vuoi per assenza del testimone o per sua distrazione, certi fatti possano essere accaduti. La prova positiva di ciò può infatti essere già ricavata dalla deposizione concordante di coloro che hanno confermato anche solo alcune delle allegazioni dedotte.

Cosa hanno ricavato i lavoratori da questa vittoria?

Il Giudice ha condannato la Società datrice ad eseguire in azienda un corso a tutti i dipendenti per avvicinarli alle tematiche razziali e sensibilizzarli al rispetto della dignità umana, indipendentemente dal colore della pelle.

Inoltre, il Tribunale ha altresì condannato l’azienda ed il responsabile al risarcimento dei danni morali patiti dai lavoratori a causa delle umiliazioni subite. Il datore di lavoro, infatti paga per le molestie razziali di un dipendente ai danni degli altri colleghi.

La quantificazione ha avuto come base di calcolo lo stipendio mensile di ogni lavoratore molestato. E’ stato così riconosciuta una somma pari al 50% di ogni retribuzione percepita nel periodo intercorrente dall’inizio del rapporto di lavoro fino all’ultimo episodio di molestia denunciato.

Se vuoi conoscere il provvedimento nel dettaglio richiedi attraverso la nostra pagina Contatti il provvedimento giudiziario RNL2c (Tribunale di Milano, ord. del 24/01/2020  – N. 2836/19 R.G.L.).