Trasferita perché denuncia le molestie

Molestia sul lavoro | Anti-Discriminazione
Genere | Anti-Discriminazione

Trasferita perché denuncia molestie: è discriminazione

E’ nullo il trasferimento di una lavoratrice, “stante la situazione disfunzionale creatasi in azienda”, dopo che accusa di molestie un collega.

Trasferita perché denuncia le molestie: è discriminazione. Questa è la battaglia vinta da Giulia che, non si è arresa all’ingiustizia ed ha ottenuto ragione avanti al Tribunale Civile.

Finito il turno di lavoro, Giulia esce dallo spogliatoio dei dipendenti e trova un collega che mostra “i genitali con i pantaloni e gli altri indumenti abbassati fino alle ginocchia” (parole testuali dell’ordinanza).

La lavoratrice racconta sconvolta l’accaduto ai colleghi e segnala la questione ai superiori. L’autore della “esibizione” nega di aver compiuto simile gesto e il datore di lavoro, senza indagare e assumere provvedimenti a tutela della lavoratrice, prende una decisione neutra: trasferisce entrambi i dipendenti coinvolti (molestata e molestatore) presso due sedi diverse da quella dove si erano svolti i fatti.

La natura discriminatoria del trasferimento

Giulia però non accetta questo trasferimento (che la allontana dal luogo di residenza) e decide di opporsi in Tribunale ritenendolo discriminatorio. Tale provvedimento infatti non solo le crea uno svantaggio, ma è direttamente correlato alla denuncia per molestia da lei presentata.

Accettare tale provvedimento significherebbe accettare che opporsi alle molestie comporta ripercussioni negative per il denunciante; e ciò non può essere ritenuto legittimo. Il Tribunale le da ragione.

Il Tribunale censura la decisione alla ponzio pilato del datore di lavoro perché quest’ultimo avrebbe disatteso i principi e i regolamenti in tema di pari opportunità e molestie.

I punti cardine della decisione del Tribunale.

1) Il valore delle dichiarazioni della vittima.

Innanzi tutto, ricorda il Giudice, “è pacifico che le dichiarazioni della parte offesa di abusi sessuali che abbia piena capacità di intendere e di volere, possono esse sole fondare la prova della responsabilità dell’autore della condotta ove non sussistano elementi, anche solo indiziari, di segno opposto che possano indurre a dubitare dell’attendibilità di tali dichiarazioni; nel qual caso, il giudice di merito è chiamato a valutarli criticamente e ad esprimere la ragione del suo convincimento”.

Il Tribunale entra quindi nel merito della vicenda e rileva che:

a) non vi erano attriti o ragioni di malanimo pregresse tra la lavoratrice e il collega che la avrebbe molestata; nessuna ragione quindi spiegherebbe una falsa accusa della denunciante ai danni del denunciato;

b) i testi ascoltati confermano che, dopo il presunto atto di molestia, Giulia era effettivamente sconvolta e spaventata nel raccontare l’accaduto;

c) Giulia aveva dimostrato molta serietà nel formulare l’accusa avendo altresì presentato una denuncia penale (con le responsabilità conseguenti);

d) un’altra collega aveva dichiarato di aver subito in passato analoga molestia dallo stesso autore.

Di fronte a tanti elementi, il Tribunale non comprende come la azienda abbia ritenuto le dichiarazioni della lavoratrice di pari valore rispetto alla difesa del denunciato.

2) Il dovere del datore di accertare i fatti e tutelare i dipendenti.

Il Tribunale è quindi giunto alla conclusione che “l’istruttoria effettuata dall’azienda è stata … molto superficiale”. L’azienda non ha interrogato neanche una collega della ricorrente, indagine che avrebbe portato con poca fatica ad ottenere i riscontri indiretti emersi nel corso del giudizio.

L’azienda ha quindi mancato di considerare le ragioni della dipendente e di assumere eventualmente dati di conferma o smentita: in una parola, ha omesso di prestarle tutelarla (come le impone l’art. 2087 c.c.).

3) Le procedure in tema di pari opportunità.

L’azienda ha altresì violato l’art. 4 del codice etico aziendale che, nell’ambito della tutela dalle molestie sessuali, prevedeva una specifica procedura disciplinata da un accordo sindacale.

L’art. 7 del predetto accordo introduce una procedura informale con l’intervento dei Consiglieri di fiducia cui compete, tra l’altro, il compito di accertare i fatti. Ma nulla di ciò era stato fatto.

Trasferita perché denuncia le molestie: è discriminazione

Il datore di lavoro ha quindi assunto le procedure sbagliate e preso le decisioni peggiori. Non ha rispettato i protocolli per i casi di molestie sessuali e ha concluso la vicenda con una decisione imparziale che si pone in contrasto con due importanti doveri. Tutelare la salute dei dipendenti. Evitare effetti pregiudizievoli ai danni di chi reagisce alle molestie.

L’art. 41bis codice pari opportunità stabilisce che “La tutela giurisdizionale …si applica avverso ogni comportamento pregiudizievole posto in essere, nei confronti della persona lesa da una discriminazione o di qualunque altra persona, quale reazione ad una qualsiasi attività diretta ad ottenere il rispetto del principio di parità di trattamento tra uomini e donne.”

La norma va letta unitamente all’art.26 del codice pari opportunità che recita: “1. Sono considerate come discriminazioni anche le molestie, ovvero quei comportamenti indesiderati, posti in essere per ragioni connesse al sesso, aventi lo scopo o l’effetto di violare la dignità di una lavoratrice o di un lavoratore e di creare un clima intimidatorio, ostile, degradante, umiliante o offensivo. 2. Sono, altresì, considerate come discriminazioni le molestie sessuali, ovvero quei comportamenti indesiderati a connotazione sessuale, espressi in forma fisica, verbale o non verbale, aventi lo scopo o l’effetto di violare la dignità di una lavoratrice o di un lavoratore e di creare un clima intimidatorio, ostile, degradante, umiliante o offensivo.”

Le molestie sono quindi equiparate dal legislatore alle discriminazioni pur presupponendo da parte dell’autore una condotta materiale del tutto differente. La scelta normativa di equiparare le molestie alle discriminazioni indirette comporta quindi sia l’applicazione alla molestia sessuale dell’art. 41bis codice pari opportunità sia dell’art. 40 che sostanzialmente introduce l’inversione dell’onere della prova.

In conclusione, il trasferimento di Giulia è illegittimo in quanto si configura come atto di vittimizzazione ingiusto. Tanto più considerando che il datore non ha spiegato per quale ragione la pretesa incompatibilità ambientale avrebbe reso necessari ambedue i trasferimenti e non solo quello dell’autore della molestia.

Se vuoi conoscere la sentenza nel dettaglio richiedi attraverso la nostra pagina Contatti il provvedimento giudiziario GM1A (Tribunale di Torino, ordinanza 28 luglio 2016  – RG.A.C.13161/2014).